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Untitled - posted by guest on 5th December 2019 06:48:16 PM

COMUNITA’ E LIBERTA’: JEAN-JACQUES ROUSSEAU E LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA : UN PROBLEMA CRITICO APERTO. 


 Nel corso di una delle sue brillanti lezioni su Fichte –nel 1977-, Francesco Moiso, che mi fu indimenticato Maestro di studi hegeliani all’Università di Torino, ebbe ad affermare che i concetti di libertà e perfettibilità, con cui Rousseau spiegava la fuoriuscita dell’uomo dall’ipotetico stato di natura, stavano all’origine del concetto di Geist in Hegel e nella filosofia classica tedesca.

Ancora imbevuto di schemi critici kroneriani e dellavolpiani –desunti dalla consueta preparazione liceale-, con la mente ancora irrigidita sull’ Io legislatore e finito di Kant che, con le mediazioni di Reinholdt, Schulze e Maimonide, diventa l’Io assoluto e creatore di Fichte, per essere poi rielaborato e perfezionato da Schelling e da Hegel, ebbi alcuni momenti di sconcerto. Ma ciò sollecitò comunque la mia curiosità e, negl’anni successivi, non dimenticai mai queste sue sollecitazioni critiche. Mi abituai sempre più visibilmente ad attribuire a Rousseau un ruolo primario, nella genesi della filosofia classica tedesca e di una più profonda linea di pensiero umanistico e critico della modernità capitalista, che si dipana dalla classicità tedesca sino al marxismo e al neoidealismo del XX secolo.

 Ne scaturirono numerosi studi, svolti per lo più nel corso degli anni ’90, la cui pubblicazione fu possibile grazie al continuo interessamento, alla disponibilità, alla grande apertura di orizzonti culturali del Prof. Marzio Pinottini –a cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti.

Va però detto, a premessa delle considerazioni che qui intendiamo sviluppare, che il quadro della recezione di Rousseau in Germania, fra il 1751 e gl’anni ’90 del secolo, non consente di trovare testimonianze oggettive e prove chiare del paradigma critico che intendiamo proporre e che valorizza, in funzione dello sviluppo della Filosofia Classsica Tedesca, il Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza, fu largamente trascurato e sottostimato dall’ambiente intellettuale tedesco di quegl’anni.

 Infatti il Rousseau che ha suscitato gli apprezzamenti maggiori è quello delle opere letterarie –fra cui spicca la Nuova Eloisa-, e poi la Lettera a D’Alambert, l’Emilio, gli scritti tardi ed autobiografici. E’ un Rousseau che sembra molto diverso, rispetto alla condanna del processo di civilizzazione dell’uomo, all’antitesi apparentemente rigida fra natura e cultura, uomo naturale e uomo sociale civilizzato, al rigetto dell’ideale illuministico del progresso continuo dell’uomo e della ragione, che Gottsched e molti esponenti della generazione di Lessing avevano colto nei due Discorsi e che ne avevano motivato una visione tendenzialmente negativa. Le tematiche ora in evidenza sono quelle della virtù morale e dei suoi fondamenti religiosi –centrali proprio nella Nuova Eloisa, in molte parti dell’Emilio e nelle Passeggiate del pensatore solitario-, più consone all’ambiente intellettuale tedesco dell’epoca. Tematiche che contribuiscono a generare il mito della personalità di Rousseau, quale modello vivente di moralità perseguitata, in antitesi alla corruzione della società del tempo e ai cedimenti dei Lumi francesi suoi contemporanei.

 Nello specifico dei Discorsi, va innanzitutto detto che a suscitare le maggiori prese di posizione e il dibattito più vivace è il Discorso sulle scienze e sulle arti, che urta in modo diretto, improvviso e imprevisto, i miti illuministici contemporanei. Il secondo Discorso, seppur tradotto prontamente da Mendelsohn, ha un impatto immediato molto più debole. Ciò è dovuto all’opinione dominante che esso segua gli schemi di pensiero del primo e che, in entrambi i casi, ci si trovi di fronte ad un sofista, ad uno spirito animato da paradossi e da contraddizioni.

 Nella sostanza, con l’importante eccezione di Lessing che, recensendo analiticamente il primo Discorso, coglie e valorizza la questione dell’alienazione sociale, che già vi spicca, il pubblico intellettuale tedesco degli anni ’50 condivide in gran parte la sprezzante e superficiale critica di Voltaire: con Rousseau ci si trova di fronte ad un personaggio stravagante, che propone come ideale l’uomo ignorante e barbaro delle foreste! Comunque sia, spicca negativamente il rifiuto dell’idea dello sviluppo continuo dell’uomo e della sua ragione e l’antitesi natura/cultura, natura/civiltà.

Sino alla metà degli anni ’90 non troviamo traccia di una lettura più approfondita e meno condizionata dai pregiudizi volteriani. Tuttavia, proprio in questi anni cruciali, secondo Jamme, se ne ha una valorizzazione prima in Hölderlin, che vi legge una visione triadica dello sviluppo storico e culturale dell’umanità, secondo lo schema perdita/riconquista dell’armonicità originaria, e successivamente in Hegel, agli inizi del periodo francofortese, che, come noto, recepisce questo schema, facendone il fondamento logico della sua dialettica.

 Il fatto, accertato e asserito da uno studioso della statura di Ch. Jamme, che sia Hölderlin che Hegel approfondiscano in questa direzione la lettura di Rousseau fuga ogni dubbio sull’alto valore critico della ricordata affermazione verbale di Francesco Moiso e toglie ogni margine di arbitrarietà alle analisi che ci accingiamo a condurre.

 Dunque perché i concetti rousseauiani di libertà e di perfettibilità potrebbero essere all’origine del concetto hegeliano di Geist, come di quello fichtiano di Ich, che gli è affine, in sintonia con un intero quadro culturale –quello della Goethe Zeit- che fa perno sull’idea dell’uomo quale soggettività creativa del proprio mondo in un contesto sociale? Perché Rousseau potrebbe essere un riferimento primario dell’intera filosofia classica tedesca?

Proprio Francesco Moiso spiegava che libertà e perfettibilità sollevavano l’uomo al di sopra di una condizione naturale, animalesca, di dipendenza meccanica dalla presenza materiale dell’oggetto e dall’istinto corporeo legato all’autoconservazione, di sottomissione alle leggi naturali date, e gli consentivano di esprimere la cultura, la Bildung: l’insieme degli oggetti, delle produzioni materiali e spirituali, delle relazioni che formano una civiltà storicamente determinata. L’uomo entra nella storia universale, che è una sua creazione sociale e collettiva e che procede secondo un modello olistico, antitetico a quello meccanico, pensato alla base della natura dalla filosofia del seicento e dallo stesso Rousseau. Con ciò l’uomo cambia anche l’insieme dei suoi comportamenti e delle sue abitudini di vita. Sorge l’idea che egli sia una soggettività attiva, libera e creativa, in grado di determinare se stesso, creando nel contempo, in una dimensione sociale e socialmente condizionata, un livello di oggettività non dato in natura, ma che dipende da lui e che costituisce il suo mondo, il suo habitat di vita, la sua cultura nel senso più ampio del termine: la società, le istituzioni, la storia.

Un’idea che nasce nel Rinascimento, ma che si generalizza proprio nella filosofia tedesca e che Moiso, giustamente, poneva in stretta relazione con i concetti di Ich in Fichte, e di Geist in Hegel, di cui non mancava di ricordare il radicamento nel lavoro umano. E’ facile intuire che, su questa linea di pensiero, si arrivi al materialismo storico di Marx. Superfluo citare i noti passi dei Manoscritti e dell’ Ideologia tedesca!

 L’uomo, con la libertà, può porre uno spazio di riflessione razionale fra l’affezione dell’ istinto e la reazione ad esso; l’imput che si riceve dall’istintività fisico-corporea è sospeso ed è possibile decidere razionalmente, scegliere con atto di volontà cosciente se assecondarlo o reprimerlo, e come modulare la risposta. Se l’animale, con necessità meccanica, grida quando ha sensazioni di dolore, si getta sul cibo quando ha fame, aggredisce quando è offeso, l’uomo può sospendere questi imput che vengono dall’impulso, differire, studiare, definire coscientemente la risposta ad esso, anche con il semplice atto di trattenere l’urlo del dolore, o di cuocere il cibo. Ciò si accompagna ad un perfezionamento dell’insieme delle sue abilità e facoltà fisiche e intellettuali, sconosciuto al resto del mondo animale, che ci consente di cercare intelligentemente il cibo, poi di produrlo, per passare a cuocerlo, a conservarlo, ecc.

 Con questi comportamenti, come argomenta il Discorso sull’origine della disuguaglianza, gli uomini entrano in stabili rapporti sociali le cui strutture e norme diventano sempre più condizionanti per chi nasce, si forma e vive al loro interno, prefigurando ruoli, caratteri e modelli, come nel caso della famiglia per l’uomo e per la donna. L’uomo si instrada a diventare soggetto creatore di se stesso e del proprio mondo, emancipato rispetto a condizionamenti e leggi naturali, nel quadro della società e della storia universale che, come accennato, si fondano sul modello olistico-totalizzante. Infatti proprio il modello teorico olistico-totalizzante, come modello strutturante le società umane e la storia, è alla base delle filosofie dell’idealismo tedesco, del pensiero marxista, come del neoidealismo del secolo testé concluso.

 E’ possibile raccogliere e radicare queste riflessioni in un unico nodo teorico, per vederne lo sviluppo fra Fichte, Hegel, Marx e oltre, ponendo Rousseau all’origine della linea di pensiero dialettica prefigurata e in antitesi alle filosofie giusnaturalistiche e razionalistiche dominanti nel sei-settecento?

 Noi crediamo fermamente di sì! Questo nodo teorico nasce dal rifiuto della nozione meccanicistica e materialisticamente intesa della libertà, nata con Hobbes, e riproposta dall’Illuminismo settecentesco, per identificarla in un atto interamente spontaneo del volere, inteso quale facoltà dell’anima, con cui l’uomo diventa il soggetto spirituale, creatore di sé e del proprio mondo oggettivo socialmente e storicamente condizionato. Una nozione spiritualistica, antimeccanicistica di libertà, dalla quale nasce l’Ich di Fichte, il Geist di Hegel, la Lebenstätigkeit umana di Marx, in netta antitesi con l’Illuminismo.

 Questo nodo teorico per altro è già stato messo in luce in un recente studio di R. Wokler, che traccia una rapida ma originale sintesi dell’intero pensiero rousseauiano. In esso si legge che, a differenza degli animali, “sempre schiavi dei propri appetiti”, “gli uomini sono dotati di libero arbitrio o, per lo meno, hanno la naturale prospettiva di essere loro i responsabili di come vivono”. Un’idea legata alla tradizione metafisica e spiritualista dell’ Europa antica e medioevale, pagana e cristiana, che venne rifiutata radicalmente da Hobbes, a favore di un’antropologia materialistica e meccanicistica già funzionale a giustificare il nascente uomo borghese, ripiegato sull’interesse egoistico, sulle materialità di vita, sulle attività economiche. Scrive R. Wokler:

 Rousseau, che su questo punto è debitore di una tradizione della filosofia classica che Hobbes aveva posto in discussione, è convinto invece che la natura eserciti una costrizione interna sul comportamento animale, e che i nostri antenati, potendo sempre soddisfare i propri impulsi naturali in modi diversi, non siano stati vincolati dagli istinti che spingono e danno ordini a tutte le altre creature. Ogni membro della specie umana che non sia infermo di mente, secondo Rousseau, è capace di governare se stesso.

 Come abbiamo cercato di argomentare in un saggio sull’ antropologia dei diritti naturali dell’uomo, pubblicato in due diverse edizioni da Noctua, Hobbes pone alla base del comportamento umano la stessa meccanica degli istinti che muove gli animali, che a sua volta richiama i principi della meccanica di Newton.[5]

Cosa può significare, infatti, che “soltanto i corpi possono essere liberi o ostacolati”? Nient’altro che concepire e spiegare l’intera vita naturale, uomo compreso, secondo il principio del moto rettilineo uniforme: può dirsi libero un corpo in grado di mantenere il proprio originario stato meccanico (di quiete o di moto rettilineo uniformemente accelerato) senza che un altro corpo lo urti o lo ostacoli. L’uomo è un ente fisico, un corpo fra i corpi, sostanzialmente pensato, come pone in luce anche Macperson, sul modello di una macchina semovente, mossa da stimoli esterni costituiti dagli istinti ed impulsi della sensibilità corporea, fondata sull’istinto autoconservativo, a perpetuare il proprio movimento, come nell’esempio meccanico appena citato.

 A questi condizionamenti meccanici l’animale non può certamente sfuggire e, in modo sostanziale, neppure l’uomo. Infatti -come abbiamo spiegato analiticamente ne Il Busto di Giano- Hobbes riduce l’atto della volontà cosciente alla deliberazione di un appetito -desiderio o avversione-, da assecondare, dopo che la mente, in cui sono impresse e in cui scorrono come i fotogrammi di un film al rallentatore tutte le rappresentazioni empiriche con relative emozioni associate, comparandolo con gli altri appetiti, ne ha valutato importanza e realizzabilità. Scrive Hobbes, nel De Homine, che “la volontà stessa è un appetito”, più precisamente l’ultimo appetito che si presenta nel corso della deliberazione; quello “che produce immediatamente l’azione o l’ omissione”.

 Questa capacità di calcolo e di discernimento sulle emozioni, sullo stimolo meccanico dell’ impulso –capacità che compete alla materialità del cervello funzionante e che, dunque, non è, nella maniera più assoluta, espressione di alcun principio spirituale- è l’unica forma di libertà riconosciuta all’ uomo, e che lo differenzia –per altro solo quantitativamente- dall’ animale. Ciò significa che l’antropologia materialistica, che proprio a partire da Hobbes sta alla base delle dottrine giusnaturalistiche, comprese quelle che si orienteranno in senso liberale e si travaseranno nell’ambiente illuminista, pensa la libertà dell’uomo unicamente nel contesto della meccanica degli istinti, come forma di relativa autonomia dai loro condizionamenti più pressanti. L’ uomo rimane sostanzialmente vincolato al determinismo meccanico della natura.

 In Rousseau la volontà ridiventa una componente dell’ anima, infusa dal Creatore nel corpo umano, entro un dualismo antropologico, che ha la sua origine più diretta in Condillac, ed un orientamento coerentemente spiritualistico che sospinge il Ginevrino ad un rifiuto non solo politico ma anche religioso della società del “bourgeois”. Ne sono una chiara dimostrazione il pensiero e la politica di Robespierre e del gruppo dirigente giacobino dell’ anno II che attorno a lui converge più coerentemente, sino alla tragedia del 9 e del 10 Termidoro, ispirandosi proprio a JJ. Rousseau.

 Superamento della necessità meccanica dell’ istinto, socialità –che significa anche intersoggettività- e creazione dell’ oggettività delle istituzioni e della storia universale, strutturate secondo il modello olistico-totalizzante, sono anche, in un quadro categoriale molto più sofisticato, gli elementi concettuali entro cui si collocano lo Ich di Fichte e il Geist di Hegel: la libertà deve emancipare l’ uomo dalla necessità naturale e meccanica, che opera in lui attraverso gli istinti; non solo consentirne un determinato grado di controllabilità.

 La questione è etica nel senso più hegeliano e tradizionale del termine: non solo relativa al comportamento individuale, ma anche a quello collettivo, sociale e pubblico. E’ questione morale –se mi si consente un uso molto elastico e molto poco dialettico del termine- e nel contempo questione politica. L’ uomo che si emancipa dalla necessità meccanica dell’ istinto è uomo che rompe con le chiusure egoistiche del “bourgeois”, che si apre alla dimensione comunitaria e fraternalistica del “citoyen” che anima l’intera componente umanistica della Goethe-Zeit, entro la quale –continuando ad ispirarci a Lukàcs- noi collochiamo la fase jenese di Ficthe e la filosofia di Hegel.

 Come noto l’ idealismo trascendentale della prima fase fichtiana nasce come filosofia della libertà in rapporto ad una pluralità di istanze, sul cui grado di importanza si può discutere all’ infinito. Tuttavia, soprattutto se si prendono in considerazione gli scritti politici del 1792-1793, nessuno può negare che determinante sia l’ interazione con gli eventi rivoluzionari francesi e l’esigenza di definire una linea di pensiero che legittimi i processi politici in corso, che vedono una soggettività collettiva emanciparsi da una tradizione data, per procedere liberamente e coscientemente a ricreare se stessa e le istituzioni del paese, a forgiare faustianamente il mondo a propria immagine e somiglianza. Una filosofia idealistica deve giustificare questa libertà, che sta nascendo in Francia con l’Assemblea Costituente e con la Convenzione Nazionale.

Su simili basi l’idealismo avrà il compito di procedere ad una costruzione trascendentale della coscienza quale soggettività libera, rimanendo sempre nei limiti della sua determinatezza finita e proponendo questi limiti come condizione irrinunciabile della sua libertà. Scriveva Pareyson che l’ idealismo trascendentale “spiega il sapere umano all’ uomo”; è “spiegazione del sapere finito, dal punto di vista del finito e col sapere finito, a noi esseri finiti”. Con ciò la libertà della coscienza non pretende l’ assolutezza demiurgica stürmeriana e romantica, né si fonda sulla deduzione dell’oggetto da una soggettività assoluta; è una libertà che si esprime nella subordinazione dell’ oggetto o Non-Io alle leggi pratiche dell’Io, per consentirgli una continua emancipazione rispetto all’ oggettività data che lo determina e una continua rideterminazione, secondo finalità coscienti.

 Una filosofia idealistica di questo tipo, come scrive chiaramente Fichte nella Dottrina della scienza del 1794, potrebbe anche essere definito un realismo critico, in quanto esso non deve tanto ricavare teoricamente il Non Io dall’ Io –questione presentata per altro come indimostrabile entro i limiti della razionalità teoretica, analitica, ereditata da Kant e dall’ Illuminismo- ma semplicemente connettere il primo al secondo in modo che gli sia subalterno e che funga da condizione di libertà in quanto limite superabile e rideterminabile dalla coscienza.

 Da un lato la coscienza deve confrontarsi con un Non-Io esteriore e indipendente –vale a dire con un’oggettività- che la limita e la finitizza, facendone un agire determinato e ben visibile, quello dell’uomo che non si perde in una tormentata e irrealizzabile Sehnsucht all’assolutezza demiurgica; e la sensibilità è veicolo di questa determinazione meccanica dell’oggetto sull’ interiorità del soggetto. Dall’altro lato la coscienza deve, come indicato, sottometterlo a sé, farne la condizione visibile della sua libertà ed operatività ricostruendo l’oggettività che la determina, conferendole nuove forme, come nella vita morale kantiana, come nella vita politica della Francia rivoluzionaria.

 Nella prospettiva dell’idealismo trascendentale della fase jenese idealismo e realismo si fondano in un “ideal-realismo” che è una spiegazione trascendentale della libertà e della superiorità della coscienza rispetto ad una realtà esterna che la delimita –una delimitazione di cui per altro essa ha necessità per essere la coscienza di un uomo concreto che agisce concretamente nella realtà concreta- e che deve essere funzionale al proprio agire: condizione kantiana di possibilità di esso. Il nuovo idealismo, che si erige a filosofia della libertà e a giustificazione teorica della Rivoluzione giacobina, deve semplicemente riconoscere che la realtà indipendente delle cose –qualunque sia la sua origine- sta per la coscienza e in funzione del suo libero agire: essa può dunque emanciparsi completamente dalla natura meccanica per creare, in un’intersoggettività, l’oggettività dialettica della cultura, delle istituzioni e della storia universale e muoversi in essa.

 Siamo dunque in presenza di una dottrina trascendentale della coscienza finita che, proprio come insisteva Francesco Moiso, deve spiegarne e spronarla ad una libertà umanamente intesa, come indipendenza razionale rispetto al condizionamento meccanico della natura attraverso i sensi, con la quale l’uomo entra necessariamente in una intersoggettività che rimuove e riplasma l’oggettività data.

 La dialettica fichtiana dell’Io, a nostro giudizio, si inscrive nel nodo teorico illustrato, che ha il suo punto di partenza nel pensiero di J.J. Rousseau, nella sua nozione di libertà come emancipazione dal determinismo meccanico della natura. Per molti aspetti ne è la prima formulazione in termini rigorosamente categoriali e ne fa già emergere, con necessità, un’essenziale corollario politico, che diviene ancor più chiaro, se guardiamo, all’intero quadro della Goethe-Zeit: muoversi in società secondo principi di assoluta indipendenza individuale, che sono una permanenza del mondo meccanico della natura nel mondo olistico-totalizzante della cultura e della storia, crea le contraddizioni laceranti del mondo sociale del “bourgeois”; la sua realtà illiberale, alienata e alienante, che la propone come una “seconda natura” del tutto incontrollata dai soggetti collettivi umani, storicamente condizionati, che l’hanno generata.

 L’unico critico che ha visto, in modo chiaro, questa relazione fra Rousseau e l’Io di Fichte, è stato M. Rang che nota nella sua antropologia una dualismo corpo e spirito, passività e attività, sensibilità e razionalità, che le consente di passare da un originaria ispirazione cartesiana ad un soggettivismo di tipo fichtiano.

 Ultima e fondamentale conseguenza è la tendenza quasi unanime –ereditata dalle migliori culture politiche del novecento- a proporre l’autenticità della libertà dell’uomo, nel quadro di mentalità, di comportamenti, di rapporti sociali comunitari e solidaristici, tesi sempre a valorizzare gli interessi e i momenti collettivi della vita umana e quel “qualcosa di più” dell’uomo –un “qualcosa di più” variamente inteso, perché in questa linea di pensiero vogliamo far rientrare anche Marx e il marxismo di impronta cominternista: ben altra cosa rispetto alla vita gaudente di Danton e allo spinello libero dei Centri Sociali!- che gli impedisce di soddisfare animalescamento se stesso nelle banche, nei ludi vacanzieri di ferragosto e nello sperpero delle tredicesime natalizie!

Un’autentica libertà dell’uomo, proprio a partire da Rousseau e dal secondo Discorso, è pensabile e proponibile entro un modello sociale e politico armonicistico, a tratti organicistico, che segue i principi del modello teorico olistico-totalizzante, fondante sin dall’inizio le forme di socialità e la storia universale, che nascono dalla libertà dell’uomo. Per essere ancor più chiari, riproponiamo e riformuliamo, in questo nuovo contesto, le riflessioni sul problema, già presentate nel nostro Hegel critico dell’autoritarismo.

 Il filosofo ginevrino, nel Discorso sull’origine della diseguaglianza, delinea un percorso, storico fenomenologico, con cui l’uomo esce dall’ipotetico stato di natura ed entra in una stabile condizione di vita sociale, fondata su principi individualistici. L’analisi rousseauiana fa emergere nitidamente il carattere alienante e liberticida di questo modello sociale individualistico, che è la sostanza dei processi di modernizzazione capitalistici e liberali: in esso l’ “essere” della persona umana è ridotto ad “apparenza” e sorgono, ad ogni livello, rapporti autoritari, che negano dal profondo ogni tipo di autentica libertà dell’uomo. Questa società è in sé contraddittoria: infatti, da un lato, essa nasce dalla libertà dell’uomo e dalla sua emancipazione rispetto ai condizionamenti meccanici della natura, dall’altro lato, essa degenera in un corpo estraneo, dispotico, profondamente illiberale. Essa si erge a nuova e “seconda natura” determinante, in modo quasi totalitario, mentalità, comportamenti e relazioni degli uomini associati, che l’hanno generata ma ne hanno perso completamente il controllo.

 Una società individualistica del “bourgeois” è innanzitutto conflittuale: dato del resto che emergeva nitidamente dall’intero individualismo possessivo del secolo precedente, da Locke a Mandeville sino all’Illuminismo liberale.

 Le pagine del secondo Discorso sulla conflittualità sociale sono troppo note, perché ci si soffermi qui in modo analitico. Più opportuno, a venti anni di distanza dalla pubblicazione del nostro Hegel critico dell’autoritarismo, è tornare a porre in rilievo il nesso che vi compare fra individualismo sociale/alienazione/autoritarismo politico, che riconferma l’idea del carattere dispotico di una società individualistica e alienante: dispotica sul piano culturale, economico-sociale e politico.

Lo stato sociale individualistico si forma quando più complessi si fanno i bisogni degli uomini e il relativo lavoro sociale necessario a soddisfarli, con beni non più offerti spontaneamente dalla natura. Sorge la divisione del lavoro e si formano i primi nuclei famigliari. L’uomo che entra in una simile condizione sociale è mosso dall’ “amor proprio interessato”: il suo solo “movente” è l’ “amore del benessere”. Il rapporto sociale ha un carattere puramente strumentale: è il mezzo cui l’uomo deve ricorrere per soddisfare i propri bisogni, nel quadro di una vita economica che diviene sempre più complessa.

La società che si forma, con un simile processo di fuoriuscita dallo stato di natura, si fonda sui principi dell’individualismo possessivo di Locke, riproposti in chiave organicamente sociale da Mandeville: l’individuo si socializza per meglio appagare se stesso e i propri istinti utilitaristici; il contesto sociale deve garantirlo nella sua attività economica mercantile. La proprietà privata diviene naturalmente il pilastro delle istituzioni sociali, inscindibilmente connessa alla libertà individuale.

Un simile processo di socializzazione genera una crescente spersonalizzazione/alienazione della persona umana, funzionale alla ricerca della ricchezza economica e del potere.

“Ecco dunque tutte le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione all’opera, l’amor proprio interessato, la ragione resa attiva. Ecco messe in atto tute le qualità naturali, e il rango e la sorte di ciascuno stabiliti … anche in base all’intelligenza, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o alle capacità; e poiché queste sono le uniche in grado di procurare stime, ben presto bisogna averle o simularle. Per il proprio tornaconto, fu necessario mostrarsi diversi da come effettivamente si era. Essere ed apparire divennero due cose del tutto diverse; e da questa distinzione scaturiscono il fasto che abbaglia, l’astuzia che inganna, e tutti i vizi che ne formano il seguito”.

 Una società, sorta su presupposti individualistici e utilitaristici, esige che l’uomo entri nella considerazione altrui come dotato di tutte quelle qualità ritenute necessarie ad assicurargli successo e benessere economico. Se non le ha deve fingere di averle, con un processo di profonda spersonalizzazione, che significa automaticamente omologazione agli stereotipi dominanti, in linea con la contemporanea società dello spettacolo. Nasce la grande tematica dell’alienazione sociale! Ma cos’è questa omologazione se non il totalitarismo subdolo e nascosto della società capitalistica e liberale sin dalle sue origini? Una società che, per far funzionare a ritmi sempre più spasmodici i meccanismi di accumulazione privata, precostituisce mode e bisogni, inventandone di totalmente artificiali, se non innaturali, come, a pochi anni di distanza dalla pubblicazione delle opere di Rousseau, segnalerà con chiarezza la Rechtsphilosophie hegeliana. Anche il “bourgeois” più opulento, che crede di essere libero nel suo benessere ostentato, conduce una vita di continue, nascoste imposizioni sociali.

L’analisi di Rousseau si sviluppa successivamente sul piano economico-sociale, ponendo in evidenza come lo stato sociale individualistico si rovesci in un sistema di dipendenze reciproche, in cui il povero dipende dai servigi del ricco e il ricco dai servigi del povero. Altro che libertà individuale nella ricerca dell’utile materiale! Ogni singolo individuo dipende dal meccanismo economico-sociale complessivo e ne è subordinato. Le relazioni economiche stesse sono coattive e illiberali, contraddittorie rispetto ai loro postulati di partenza, che volevano l’individuo libero di badare a se stesso con le proprie forze e la propria attività lavorativa. L’indipendenza si rovescia in una completa dipendenza reciproca.

 Il discorso rousseauiano prosegue con il “patto sociale iniquo”, imposto dai ricchi, con il quale nascono le istituzioni politiche da loro egemonizzate e finalizzate a tutelarne le ricchezze. Si giunge ad un terzo livello di coazione: quella politica, rappresentata dal potere di istituzioni statali controllate dalle classi possidenti, contro chiunque voglia ridiscuterne il potere sociale.

Rousseau ci dice che “tutte le magistrature all’inizio erano elettive”, ma nel corso della storia esse tesero a diventare ereditarie, e a configurarsi come un patrimonio privato dei ceti più abbienti, con il consenso dell’intero corpo sociale. Per spiegare i motivi di questa deriva oligarchica ed autoritaria dei rapporti politici, Rousseau riprende il modello storiografico di Polibio, ponendovi alla base le crescenti disparità di ricchezze e la cultura del “bourgeois”, che affetta ricchi e poveri, come il consumismo più becero dei giorni nostri. Il “bourgeois” di ogni condizione sociale è talmente ripiegato sulla propria sfera materiale e privata di vita da considerare, come nella Roma repubblicana opulenta del II, I secolo a.C., la partecipazione alla gestione politica dello stato una pura perdita di tempo.

 Il modello sociale individualistico nega ad ogni suo livello i presupposti di libertà, da cui parte la condizione umana per emanciparsi dalla natura ed entrare nella storia universale. L’uomo può sottrarsi ad una simile condizione contraddittoria, solo se accetta di socializzarsi completamento, per diventare il “citoyen” del Contratto sociale e per vivere secondo valori e strutture solidaristiche e comunitarie. Ne nascerebbe un modello sociale armonicistico, i cui principi di priorità del tutto rispetto alla parte, sarebbero in sintonia con le strutture generali olistico-totalizzanti della vita sociale in sé e della storia. Si porrebbe con ciò fine alle laceranti contraddizioni di una società che, da un lato, non vorrebbe riconoscere la realtà e la validità di simili strutture, liberando l’individualismo più spettacolare e appariscente, e, dall’altro lato, le fa operare in modo immediato, incontrollato e subdolamente totalitario. La via di un’autentica libertà dell’uomo, nella sfera politica, è la costruzione di armonie sociali, ispirate di fatto al mondo classico greco, in alternativa alla società lacerata e conflittuale della borghesia liberale. La libertà esige il superamento della lacerazione sociale!

 Su questa linea, l’influsso di Rousseau e, nello specifico, del secondo Discorso, sull’intera classicità tedesca è diretto e decisivo; ne sono testimonianza un frammento hegeliano del 1795 e la VI lettera sull’educazione estetica di Schiller. Hegel, ad esempio, vi descrive il processo di decadenza della polis con uno schema concettuale polibiano, del tutto simile a quello utilizzato dal Ginevrino. Non ci soffermiamo sullo scritto in questione, perché da noi ampiamente trattato altrove. Torniamo solo a metterne in luce le conclusioni convergenti con quelle rousseauiane. L’individualismo sociale si accompagna alla lacerazione, alla conflittualità e ad una crescente apatia politica che agevola la trasformazione in senso oligarchico e autoritario dello stato: L’autoritarismo politico è dunque consequenziale ai meccanismi profondi di una società lacerata e alienante e della sua cultura individualistica e utilitaristica. Nel contesto di una società individualistica non trova mai spazio la libertà autentica dell’uomo, quale emancipazione dal condizionamento meccanico dello habitat oggettivo di vita.

 Schiller riprende la problematica, connettendo con organicità lo stato di lacerazione interiore della soggettività umano, alla lacerazione del corpo sociale: lacerazione soggettiva e lacerazione sociale.

 Facendo riferimento alle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, nello specifico alla VI lettera, la lacerazione soggettiva appare come il principio culturale dominante della società moderna; il presupposto logico e storico di un processo di disgregazione che la trasforma in un puro e semplice aggregato meccanico, all’interno del quale individualità e gruppi sociali, sono animati da finalità particolari e conflittuali. Scrive Schiller:

 Su simili basi si giunge al modello sociale individualistico che, con un necessario movimento logico e storico, si trasforma nel citato meccanismo oggettivo estraneo e coattivo. Le conseguenze politiche sono le stesse poste in evidenza da Rousseau e da Hegel: nasce uno stato dominato da una ristretta oligarchia, che governa in modo autoritario, senza più legami con l’interesse pubblico.

“E così poco a poco viene distrutta la singola vita concreta, affinché il tutto astratto possa conservare una vita insufficiente, e lo stato rimane sempre estraneo ai suoi cittadini, perché il sentimento non riesce mai a trovarlo…la classe governante finisce col perdere di vista l’umanità stessa, confondendola con un semplice prodotto dell’intelletto; e il governato non può che ricevere con freddezza le leggi, così poco direttamente rivolte a lui…la società positiva si dissolve moralmente in uno stato di natura…nel quale il potere pubblico è soltanto un partito di più, odiato e ingannato da colui che lo rende necessario, e rispettato soltanto da chi potrebbe farne a meno.”

 Prima e fondamentale lacerazione, che si apre storicamente nel processo di passaggio dalla civiltà greca alla civiltà moderna, è quella fra ragione e sensibilità, cui segue la divisione fra le varie facoltà e “attitudini” umane. Nasce la divisione del lavoro e si giunge ad uno sviluppo culturale e materiale fondato sulla specializzazione delle competenze e dei ruoli. Si passa da una società armonica e libera -la polis greco-classica- ad una società individualistica, disgregata atomisticamente e illiberale.

“Quella natura di polipo propria degli stati greci, in cui ogni individuo godeva di una vita indipendente e, se necessario, poteva diventare un tutto, fece posto ad un artificioso congegno, in cui dall’accozzamento di particelle infinite ma inanimate, si forma nel tutto una vita meccanica…Eternamente legato solo ad un piccolo frammento del tutto, l’uomo stesso si forma solo come frammento…anche la scarsa relazione che unisce ancora i singoli membri al tutto non dipende da forme che essi si diano liberamente (poiché come si potrebbe affidare alla loro libertà un meccanismo tanto artificioso e pauroso della luce?), bensì viene loro prescritto con scrupoloso rigore da un formulario, in cui si tiene legata la loro libera intelligenza.”

 In modo più specifico, tre sono i nessi logici, con cui si passa dalla lacerazione soggettiva a quella sociale:

 1) la divisione fra le facoltà e le attitudini del soggetto determina uno sviluppo sociale fondato sulla specializzazione, con la conseguenza di irrigidire progressivamente individualità e gruppi sociali entro interessi e competenze particolari, allentandone i legami reciproci e distruggendo il sentimento di appartenenza comunitaria;

 2) in base a questa cultura della specializzazione, che si esaspera nella modernità capitalistica, anche la ragione si sviluppa astrattamente rispetto alla sensibilità, con la quale originariamente era in perfetta sintonia; ne nasce una razionalità astratta e analitica, incapace di sintetizzare la vita individuale e collettiva e, quindi, di proiettare l’uomo verso le armonie comunitarie;

 3) la scissione, qui delineata, fra razionalità e sensibilità ha l’estrema conseguenza di abbandonare quest’ultima esclusivamente agli istinti materiali ed egoistici della sua dimensione fisico-corporea; con ciò la razionalità astratta e analitica e la cultura della specializzazione si connettono sempre più strettamente alla cultura egoistica del “bourgeois”.

 Un simile contesto sociale e culturale ha necessariamente delle conseguenze politiche autoritarie: come, nella soggettività scissa kantiana, la legge morale deve essere imposta alla sensibilità, così, in una società composta da individualità-atomo, che tendono a sfuggire al dovere civico, la legge deve essere applicata con la forza di polizia e lo stato diviene –come nel liberalismo di Locke- un meccanismo autoritario. La lacerazione soggettiva, che parte dalla scissione fra ragione e sensibilità –tematica per altro presente, anche nell’opera di Rousseau, in particolare nella Nuova Eloisa-, si lega organicamente alla lacerazione individualistica del corpo sociale, costituendone di fatto, nell’analisi schilleriana, il fondamento logico e storico.

A questo punto, la ricerca di uno stato sociale, che sia condizione oggettiva e stimolo di libertà autentica dell’uomo, deve porsi al di fuori dell’individualismo sociale del “bourgeois” e caratterizzarsi in senso armonicistico. Solo una comunità armonica e sinfonica, come la musica della nona sinfonia di Beethoven –che culmina non casualmente nell’ “Inno alla gioia” di Schiller- può consentire all’uomo di muoversi in autonomia rispetto ai condizionamenti meccanici dell’ambiente e dell’istinto e di ricostruire le armonie della sua stessa soggettività: argomento, quest’ultimo, tipicamente schilleriano, ma che trova anch’esso radici profonde nel pensiero di J.J.Rousseau.

 In questo contesto, come accennato, è lo stesso concetto hegeliano di Geist –quale “più alta definizione dell’assoluto”- a rivelarsi in sintonia con la nozione di libertà rousseauiana.

Questa la definizione, che si trova nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio:

 Sostanza dello spirito è la libertà, che richiama la struttura del “concetto” logico, in quanto unità negativa a sé, vale a dire negazione della negazione: un principio dinamico di autosvolgimento, inteso nella sua piena effettualità e concretezza. Questa effettualità viene anche indicata con il termine “dasein”, tradotto nell’edizione UTET della Grande Enciclopedia con “essere determinato”.

Per comprendere pienamente queste affermazioni, è inevitabile far riferimento all’apparato categoriale, che sta a fondamento della definizione dell’assoluto e della Scienza della logica. La negazione della negazione è principio di autosvolgimento controllato, in base al quale ogni aspetto particolare della realtà spirituale –uomo, istituzioni, storia universale, cultura- riflette sulla propria immediatezza, la nega e passa ad altro e, nel contempo, riflette sul proprio riflettere, nega il proprio negarsi e ritrova la propria identità nell’altro in cui si è posto. E’ quel “movimento del porre se stesso”, della “mediazione del divenire-altro-da-sé con se stesso”, con il quale Hegel definisce sinteticamente la struttura dell’assoluto nella “Vorrede” alla Fenomenologia dello spirito.

Ogni determinatezza, in cui si articola il mondo dello spirito –uomini, popoli, civiltà, sistemi concettuali- in sé e per sé stessa tende a mutare radicalmente il proprio aspetto, ad evolversi bruscamente, con il rischio di non riconoscersi più nelle forme assunte, ma anche con l’essenziale capacità di controllare questi mutamenti e di ritrovarvi la propria identità. Il modello di riferimento potrebbe essere un popolo che progredisce, esprime rapporti economici, sociali, politici, ecc. completamente diversi, rispetto a quelli originari, senza però stravolgere la propria identità culturale e i propri valori, mantenendo nell’individualismo moderno il tradizionale sentimento di appartenenza comunitaria.

 La dialettica del Geist è da leggersi in base a due movimenti dialettici intrecciati, che stanno proprio alla base della categoria logica di “Dasein”, come di quella di “concetto”: il movimento del particolare autosvolgentesi e il movimento del ritorno di questo particolare autosvolgentesi all’universale. In modo più concreto, abbiamo sempre una determinatezza particolare che si deve autosvolgere e autodeterminarsi, in condizioni di libertà e di autocontrollo, in un sistema complesso e totalizzante, entro il quale deve consolidare dialetticamente –in linea con la categoria di Aufhebung- la propria autonomia e la propria originalità individuale.

 All’inizio della logica, Hegel stabilisce l’articolazione dell’assoluto, e dunque della realtà che ne è l’autosvolgimento effettuale, in una molteplicità di singoli caratteri particolari entro una totalità relazionale; cioè a partire dai singoli uomini, chiamati ad esprimersi, con vocazioni, interessi differenti, ecc., entro i rapporti sociali e politici delle comunità nazionali di appartenenza .

Dunque, non ritornando più il “Dasein” all’unità immediata e originaria dell’ “essere”, l’universo, per sua struttura razionale ontologica, è una pluralità organizzata e interdipendente di determinatezze, esistenze particolari, in sé dinamiche; e non possono più essere pensate e tollerate strutture totalizzanti che esigano la completa omogeneità. Abbiamo succintamente descritto un autosvolgimento dialettico controllato del particolare, che è in grado di erigerlo a soggetto individuale e personale libero, nel contesto totalizzante in cui si radica, interagendo con tutti gli altri processi di crescita individuali o di gruppo. Il sistema di appartenenza condiziona certamente le determinatezze che ne fanno parte –gli uomini associati; i popoli nella storia universale, ecc.-; ma un soggetto libero, individuale e collettivo, è in grado di rielaborarli criticamente, facendone uno stimolo autonomo e coscientemente elaborato al proprio sviluppo.

 Per concludere questa forse troppo lunga scheda: Rousseau sta alla base di un’intera linea di pensiero che si dipana da Fiche a Hegel, da Marx a Gentile, orientata a criticare dialetticamente la modernità liberale e illuminista e a ripensarla in forme conformi e adeguate alla tradizione europea.

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